1963
Il vasto territorio apulo ha una sola grande colonia greca: Taranto; sulla costa lucana del mar Ionio sono altre due colonie: Metaponto ed Eraclea, cui è da aggiungersi, per quanto manchino o quasi documenti archeologici, Siri.
Non intendo qui certo seguire, in base alla documentazione archeologica, la storia di queste città, ma solamente richiamare l’attenzione su alcuni determinati problemi di Taranto e di Eraclea, in base soprattutto a scoperte recenti, nel quadro del tema di questo convegno: metropoli e colonie.
Taranto fu fondata, secondo la tradizione, nel 706 a.C. Questa data, che compare nella traduzione di S. Girolamo del Chronicon di Eusebio, corrisponde con sufficiente esattezza a quella dataci dai monumenti archeologici, si che non sembra, come si è voluto anche da illustri studiosi, di dover anticipare la data della fondazione di 50 anni o più.
Nella grande necropoli di Taranto, di cui sono note già decine di migliaia di tombe, tra cui numerose quelle protocorinzie, mancano, per quanto io sappia, vasi di ceramica «corinzia geometrica» — per usare la terminologia del Vallet — a pareti spesse e vernice scura, e molto scarsi sono i vasi protocorinzi geometrici: tre tombe in tutto, oltre ad un collo di oinochoe conica di incerta provenienza. La tomba più antica, con un ariballo panciuto quasi globulare, era a incinerazione, e va datata agli ultimi decenni dell’VIII secolo, una delle prime tombe della nuova colonia; le altre due sono certo più tarde, forse dell’inizio del VII.
Qualche raro frammento di ceramica corinzia geometrica è stato trovato nel 1961, in strati sottostanti a quelli greci, in via Nitti, insieme a frammenti di vasi apuli protogeometrici tipo Borgo Nuovo ed i frammenti sono forse in relazione con muretti di rozza costruzione impostati direttamente sulla terra rossa del bolo; qualche altro frammento arcaico, a quanto mi ha riferito il solerte assistente Argardio Campi, è apparso una ventina di anni or sono, negli scavi per la costruzione del Nuovo Palazzo degli Studi in via Pupino, a breve distanza da via Nitti: in ambedue i casi il materiale sembra appartenere ad abitazioni, e non a tombe.
Interessante è il confronto con gli elementi geometrici greci del noto abitato preistorico dello Scoglio del Tonno, rinvenuti, purtroppo, in strati rimescolati. Si tratta di una sessantina di frammenti vascolari (è possibile fossero anche di più perché nello scavo, affrettato per la necessità della costruzione del parco ferroviario, si dava importanza soprattutto al materiale preistorico) e di pochi vasi incompleti: oinochoai e skyphoi protocorinzi geometrici, databili in un periodo strettamente conchiuso, tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del VII: nessun frammento di ceramica geometrica corinzia più antica a pareti spesse. Ai frammenti protocorinzi si aggiungono due frammenti di piatti laconici geometrici, attribuibili anch’essi alla fine dell’VIII secolo, quasi fossero stati portati dai primi coloni spartani. Più importante ancora è il confronto col materiale proveniente dagli scavi dell’abitato di Porto Saturo, in cui è facile riconoscere l’antica Satyrion. Lo studio, affidato al prof. Lo Porto, è in corso, e ci auguriamo che, oltre all’esame degli oggetti, egli possa anche trarne qualche risultato storico. Il materiale protocorinzio geometrico è qui veramente ricco ed abbondante (soprattutto lekythoi e skyphoi) ed è presente anche qualche frammento laconico geometrico. A questo abbondante materiale della fine dell’VIII o dell’inizio del VII secolo si aggiungono inoltre pochi frammenti di ceramica corinzia arcaica, probabilmente di pieno VIII secolo.
Questi dati archeologici ci sembrano confermare le fonti antiche, che collegano la fondazione di Taranto a Satyrion, e che anzi danno a Satyrion un particolare rilievo.
Secondo la fondamentale narrazione di Antioco di Siracusa riportataci da Strabone l’oracolo di Delfi aveva appunto risposto a Falanto:
Σατύριόν τοι δῶκα Τάραντά τε πίοτα δῆμον
οἰκῆσαι, καὶ πῆμα Ἰαπύγεσσι γενέσθαι
(Ti ho concesso di abitare Satyrion, e la pingue regione di Taranto, e di diventare la rovina per gli Iapigi).
Anche se il responso delfico può essere dovuto a una tradizione posteriore, e la frase relativa agli Iapigi potrebbe confermarlo, certo è che esso rispecchia esattamente una situazione provata da rinvenimenti archeologici: del resto il problema della datazione dei responsi delfici, importante in relazione alla colonizzazione greca, è ancora in discussione, ma, come è stato già notato, nella seconda metà dell’VIII secolo Delfi è particolarmente fiorente.
Diodoro Siculo che, pur scrivendo molto più tardi, riporta spesso integralmente fonti antiche, è ancora più esplicito: gli Epeunacti, che paiono corrispondere ai Parteni, sarebbero stati invitati a colonizzare Taranto, nei pressi di Satyrion. Secondo Probo e Servio Taranto si sarebbe chiamata anzi prima Satyrion.
I legami di Satyrion con Taranto sono del resto ben noti: la ninfa epicoria Satyria (Σατυρία), sposa di Poseidon, è la madre di Taras — secondo un’altra tradizione è la sposa di Taras — e già nel VI e V secolo la sua testa compare nelle monete tarantine. E se vogliamo ancora addentrarci nel mito, ricorderemo che Satyria è figlia del re di Creta Minosse e che i Parteni, venendo a colonizzare Taranto, trovarono, sempre secondo Antioco, barbari, cioè indigeni, e Cretesi.
Ma siamo così arrivati, a ritroso, alla colonizzazione mitica, o se preferiamo, anche se il termine non sembra esatto, alla pre-colonizzazione.
Nel complesso problema, oggi di attualità, in cui trovano spiegazione molti episodi, più o meno storici, della protostoria greca, è nostro compito qui riferirci solo a qualche dato archeologico della regione che ci interessa.
Allo Scoglio del Tonno è presente in notevole abbondanza (circa 750 frammenti) la ceramica micenea, dal miceneo III A al III B al III C cioè, all’incirca, dalla metà alla fine del secondo millennio a.C., ed il materiale sembra prevalentemente di origine rodia, tanto da aver fatto supporre al Taylour la «forte probabilità» di una colonia rodia.
A Porto Saturo, cioè a Satyrion, e nella vicina Torre Castelluccia, importante insediamento apulo di cui diremo in seguito, si è trovato materiale analogo, benché in numero minore e più tardo, soprattutto del miceneo III C. Materiali micenei sono presenti anche in altre località pugliesi e, nell’interno del Salento, a S. Cosimo vicino ad Oria. Certo è che, come già accennavo al 1° Convegno, queste localizzazioni egee si hanno soprattutto in quei luoghi che, come lo Scoglio del Tonno, Porto Saturo, o Torre Castelluccia, si presentano a forma di promontori protesi sul mare e facilmente difendibili da terra.
Con il crollo del mondo miceneo si ha, per la zona di Taranto, una cessazione o per lo meno una grande limitazione di rapporti commerciali — almeno per quanto possiamo arguire dai dati archeologici in nostro possesso — con l’area greca. Le ceramiche submicenee, sia allo Scoglio del Tonno che a Porto Saturo e Torre Castelluccia, sono relativamente scarse, ed è probabile che, almeno per la massima parte, siano di fabbricazione locale; prende invece sempre maggiore sviluppo, nei primi secoli del primo millennio a.C., la ceramica indigena protogeometrica o, per usare il termine del Taylour, la ceramica iapigia geometrica, in cui le influenze micenee appaiono sempre minori.
Ma mentre a Leporano e soprattutto a Torre Castelluccia i reperti di tale tipo di ceramica sono relativamente numerosi ed abbondanti, allo Scoglio del Tonno essi sono praticamente assenti (se ne sono trovati solo pochi frammenti sporadici). È evidente cioè, a mio avviso, che l’insediamento abitato fu abbandonato per circa tre secoli, dalla fine cioè del secondo millennio, o anche prima, alla fine dell’VIII secolo a.C.
Senza discutere qui le ragioni che a tale abbandono hanno potuto condurre, ne possiamo trovare conferma dal fatto che un insediamento protoapulo è attestato invece nella città nuova. Oltre che dai pochi reperti associati a materiale greco arcaico, di via Nitti e del Palazzo degli Studi, cui prima ho accennato, ne abbiamo la prova soprattutto nel cospicuo gruppo di vasi detti appunto di Borgo Nuovo o D’Eredità, dal nome del proprietario del fondo, trovati in un pozzo a via De Cesare 61, e che si possono considerare, anche per i paralleli con analoga ceramica di Coppa Nevigata, di S. Severo e di altre località apule come i più antichi vasi iapigi, da cui si fa derivare appunto il geometrico pugliese del VII e VI secolo nelle sue più tarde distinzioni in dauno, peucetico e messapico.
Alcune tombe, che probabilmente appartenevano al medesimo abitato cui si riferivano i vasi, furono trovate nella vicina Piazza del Carmine alla fine del secolo scorso, ma purtroppo ne mancano notizie precise.
Secondo la descrizione sommaria del Viola, si tratta di «moltissime tombe» incavate nel masso, senza ordine e direzione, che paiono essere state devastate quando, sopra di esse, furono costruiti gli edifici greci; in una sola si trovò terra di rogo (si tratta quindi di tombe ad incinerazione, come quelle protoapule di Torre Castelluccia) e frammenti, sia di vasi che sembrano appartenere al protogeometrico apulo ( il Viola dice: «vasi col fondo grigio-giallastro, sui quali sono eseguiti a colore oscuro semplici
decorazioni geometriche, e che si trovano in gran copianella Puglia») sia, più abbondanti, «molti rottami di vasi fatti a mano, in una creta poco depurata, e lisciati nella parte esterna con la stecca», cioè, a quanto pare, semplice ceramica ad impasto dell’età del ferro.
Ma ritorniamo alla fondazione di Taranto. La comune opinione vuole che il primo stanziamento greco sia stato nella penisola della Città Vecchia, che poi costituì l’acropoli della città. Nessun ritrovamento archeologico ci conferma questa ipotesi; è però a dire che a Taranto vecchia non si sono mai potuti eseguire scavi. Nessun ritrovamento archeologico è nemmeno noto nella zona del Taras, il fiume eponimo della città, che è ad una decina di chilometri ad occidente di Taranto, e che pur potrebbe far pensare ad uno stanziamento antico nella zona. Ma è certo che il nome di Taras fosse anticamente attribuito proprio al torrente che oggi ne porta il nome, o non piuttosto a qualche piccolo corso d’acqua più vicino a Taranto?
È una domanda questa cui, per ora, non saprei dare risposta, ma forse sarà il caso di approfondire la questione.
Allo stato attuale delle nostre conoscenze archeologiche, abbiamo una sicura presenza greca, con reperti abbondanti e contemporanei, a Satyrion e allo Scoglio del Tonno, negli ultimissimi anni dell’VIII secolo. I pochissimi elementi greci di età precedente, a Satyrion e al Borgo Nuovo, sono troppo miseri, in relazione anche alla quantità del materiale protoapulo dell’ultima località, per provare una colonizzazione, ma vogliono solo indicare, a mio avviso, come è del resto logico, la esistenza di rapporti commerciali tra la zona di Taranto — e più esattamente i due abitati prelaconici di Satyrion e di Borgo Nuovo — e la Grecia: la datazione delle più antiche tombe greche di Taranto che, come abbiamo detto, sono della fine dell’VIII secolo e dei primi del VII, è significativa al riguardo.
L’occupazione greca della zona dello Scoglio del Tonno, il cui abitato indigeno era abbandonato da secoli, sembra cioè coincidere con la data tradizionale del 706 a.C., così come coincide la data dell’occupazione greca di Satyrion; ma mentre per Satyrion si ha l’occupazione greca di una città fiorente, per lo Scoglio del Tonno vi è, in base a quanto abbiamo detto prima, l’occupazione di una località disabitata, e l’occupazione sembra dovuta a necessità militari, e pertanto durata pochi anni: il materiale protocorinzio dello Scoglio del Tonno è infatti tutto di tipo geometrico, e non vi sono frammenti posteriori, se non sporadici. I coloni greci, cioè, per poter impadronirsi della regione tarantina, hanno dovuto creare anzitutto una testa di ponte sul promontorio dello Scoglio del Tonno, che dominava, da occidente, la zona di Taranto e insieme occupare stabilmente il centro protoapulo di Satyrion pochi chilometri ad oriente.
Ma mentre lo Scoglio del Tonno, cessate le necessità militari fu poco dopo nuovamente abbandonato, insediandosi i Greci probabilmente nella attuale Città vecchia, la città di Satyrion, divenuta da città apula città greca, continuò a vivere relativamente fiorente per tutto il settimo secolo, come è dimostrato dall’abbondanza del materiale corinzio, e perdette solo a poco a poco la sua importanza di fronte a quella sempre crescente della vicina Taranto.
Quanto al terzo insediamento antico che abbiamo già ricordato, Torre Castelluccia, che è a circa 6 km. ad est di Satyrion, gli scavi del Drago hanno dimostrato che l’abitato fu abbandonato precipitosamente, lasciando nelle abitazioni ancora il grano negli otri, e gli allora preziosi oggetti di abbigliamento nelle case, mentre un incendio devastava il villaggio.
Ci sembra di poter dedurre che l’abitato apulo di Torre Castelluccia fu abbandonato quando i coloni greci occuparono Satyrion, o subito dopo, probabilmente in seguito alla pressione dei Greci, che male potevano tollerare un centro indigeno a così poca distanza da Satyrion: la controprova, del resto, mi pare si abbia nella mancanza di elementi greci arcaici a Torre Castelluccia, non essendo supponibile una completa mancanza di rapporti tra due centri abitati distanti appena 6 chilometri e che, fino alla conquista greca, avevano la stessa civiltà, come è dimostrato dagli analoghi vasi apuli protogeometrici a Torre Castelluccia e a Satyrion.
Infatti i reperti protocorinzi geometrici, pure nella grande quantità del materiale archeologico rinvenuto, sono del tutto insignificanti e sporadici: una oinochoe non decorata e qualche frammento di skyphos.
Se queste considerazioni sono esatte il 706 a.C., data tradizionale della fondazione di Taranto, e quindi anche di Satyrion, costituisce un importante terminus ante quem per la ceramica apula protogeometrica di Torre Castelluccia nonché, per evidente analogia, per quella, ritrovata in quantità minore, a Satyrion e nel Borgo Nuovo di Taranto, ceramica che, nelle sue forme seriori, è vicinissima a quella di Torre Castelluccia: nei due abitati ormai greci di Taranto e di Satyrion non si fabbricava più ceramica geometrica indigena, come è del resto provato anche dai corredi delle tombe greche della necropoli tarantina, in cui manca completamente ceramica di tale tipo.
Possiamo quindi riassumere dicendo che gli Spartani occuparono intorno al 706 a.C. Satyrion e lo Scoglio del Tonno, che dominavano la zona di Taranto, lasciando poi l’ultima località, occupata per ragioni militari, per insediarsi nell’attuale Città Vecchia. Gli abitati apuli prelaconici erano l’uno a Satyrion, l’altro nella zona di Borgo Nuovo, ed i loro rapporti commerciali con la Grecia sono attestati, per l’VIII secolo, da scarso materiale arcaico.
Taranto, quindi, sorse nel 706 a.C., o intorno a questa data, come colonia laconica di Sparta o, se si preferisce, di Amicle, dopo che gli Spartani l’ebbero conquistata e annessa, con la presenza, come hanno notato il Giannelli e il Wuilleumier, di elementi predorici, cioè arcadici, della regione di Amicle, documentatici soprattutto nel nome del mitico fondatore: Falanto, che non è nome spartano.
I rapporti di Taranto con la madre patria, Sparta, e con la Grecia sono ben documentati, dal punto di vista archeologico, dai corredi tombali della grande necropoli tarantina, esposti al Museo Nazionale. Con Sparta l’esistenza di stretti rapporti commerciali è provata anzitutto dalla relativa abbondanza di ceramica laconica, ceramica, come è noto, molto rara al di fuori di Taranto e di Cirene, altra colonia spartana. Mancano, almeno sinora, nella necropoli tarantina, ceramiche laconiche sicuramente databili al VII secolo a.C., ma in questo periodo anche gli esemplari della Laconia stessa sono assai rari; abbiamo già accennato ai frammenti di ceramica laconica geometrica dello Scoglio del Tonno e di Satyrion, portati dai primi coloni.
Nel VI secolo invece i reperti laconici sono particolarmente abbondanti a Taranto: dell’inizio del secolo sono le due celebri coppe con pesci, con la rappresentazione di tonni e delfini di vivace effetto naturalistico; del secondo quarto del secolo è la nota coppa con Zeus e l’aquila, attribuita al pittore di Naucratis; di poco più tarda la coppa con lo stambecco, caratterizzata dalle precise incisioni per i dettagli anatomici, attribuita al pittore della caccia; di poco oltre la metà del secolo una coppa, con triplice e complessa figurazione (una scena di offerta in alto, una fascia mediana con animali; un komos, ai lati di un otre in basso) forse della cerchia del pittore di Arkesilas. Tra i prodotti più tardi, della fine del VI secolo, è la kylix D’Ayala con la ninfa Cirene in lotta col leone.
Accanto a questi pezzi famosi è un numero veramente cospicuo di altri vasi laconici, dalle coppe (la forma più comune), alle coppette apode, agli skyphoi, alle lekanai, agli ariballoi.
Ma i vasi laconici dovevano essere certo anche anticamente pezzi rari, anche per la loro fragilità, che ne rendeva più difficile il trasporto. Sono quindi ben più numerosi, nei corredi della necropoli tarentina; i materiali provenienti da altri centri greci e, naturalmente, soprattutto da quelli che detenevano, si può dire, il monopolio del mercato vascolare: prima Corinto, poi Atene. Il Museo Nazionale possiede, della ceramica corinzia ed attica a figure nere, una delle collezioni maggiori: i corredi sono esposti distinti l’uno dall’altro, per consentire l’esame delle associazioni del materiale. E infatti, insieme ai vasi corinzi e poi attici — soprattutto per il VII e i primi decenni del VI sec. a.C. — non mancano, associate negli stessi corredi, ceramiche importate da altri centri artistici greci: calici di Chio, lekythoi samie, lydia e vasi di bucchero grigio, pissidi cretesi e, soprattutto, coppe di tipo ionico e numerosi balsamari plastici provenienti, a quanto pare, da Rodi e da altre isole dell’Egeo. Taranto acquistava cioè sul mercato greco praticamente tutta la suppellettile per le sue tombe, facilitata, in questo, dalla sua vicinanza alla Grecia e dalla sempre maggiore importanza del suo porto.
L’esistenza di vasi corinzi di imitazione, come in altre località della Magna Grecia, è, per Taranto, incerta: sono forse di fabbricazione locale alcune semplici olpai inornate e alcuni stamnoi sferoidali con decorazioni a fasce, presenti eccezionalmente in alcune tombe con materiale mesocorinzio: ma la semplicità della fattura e della decorazione li avvicina, in verità, alla ceramica di uso domestico, che noi purtroppo, a Taranto, non conosciamo quasi affatto ma che, logicamente, doveva essere prodotta in luogo. In un solo caso, che io sappia, si ha una trozzella messapica associata a materiale corinzio e, in 2 o 3 casi, pissidi sferoidali con decorazione a cerchi che si sono supposte lucane. Si tratta forse di qualche indigeno dell’interno, morto a Taranto?
Ancora più incerta sembra la possibilità di imitazione di vasi attici, almeno per buona parte del VI secolo. Si è anche pensato a viaggi compiuti in Italia da vasai e pittori greci che imitassero le forme vascolari preferite dai coloni greci o dagli indigeni, come ad esempio la trozzella apula, di cui abbiamo — non però a Taranto — alcuni esemplari a vernice nera; ma se questo è possibile per altre zone, è forse anche per il Salento, i cui rapporti diretti con Atene erano più frequenti di quanto in genere si pensi, non è invece facilmente supponibile per Taranto, dove la facilità degli scambi commerciali rendeva praticamente inutile una soluzione del genere.
L’esame del materiale attico ci permette alcune osservazioni, cui ci sentiamo autorizzati, sia pur a titolo di considerazioni preliminari, solo dal notevole numero di tombe già note. La ceramica a figure nere, pur tanto abbondante, non ci appare a Taranto rappresentata in tutti i suoi principali maestri, ma solo da alcune categorie di vasi e da determinati ceramografi.
Abbastanza rappresentato il materiale più antico (qualche anfora con teste di cavallo, una lekanis del gruppo di Dresda, alcune olpai), ma la preferenza del gusto tarantino sembra rivolgersi soprattutto alle coppe, prima del tipo dei comasti, poi di Siana, poi infine dei piccoli maestri: abbondantissime quelle del pittore Lydos (che, oltre che coppe, ha anche qualche anfora e qualche lekythos) di cui il Museo di Taranto ha la collezione maggiore.
Mancano — o sono rappresentati da pochi pezzi — i vasi attribuibili alla cerchia di Exekias, di Amasis, nonché di Nikosthenes o del gruppo di Leagros, cioè, grosso modo, degli ultimi 3 o 4 decenni del VI secolo. Ben documentati invece i vasi più tardi del pittore di Teseo e le lekythoi dei pittori di Atena e di Edimburgo, in un gruppo relativamente omogeneo degli ultimi anni del VI secolo o dei primi decenni del V; a questi vasi accenneremo anche in seguito, dopo aver fatto cenno della scultura.
La stessa intensità di rapporti commerciali che ci è documentata dall’importazione di ceramica, determinava evidentemente anche una varietà di rapporti umani, per cui a Taranto affluirono certamente artisti di varie scuole e tendenze, e Taranto commissionava le sue opere ad artisti di diversi centri artistici greci.
Sappiamo così che di due donari che i Tarentini eressero a Delfi, a ricordo delle loro vittorie sugli Apuli, il primo, databile alla fine del VI o ai primissimi anni del V sec. a.C., fu eseguito da Hageladas di Argo e rappresentava cavalli di bronzo e donne prigioniere; il secondo, forse databile intorno al 460, fu opera di Onatas di Egina e dello scultore, altrimenti ignoto, Kalynthos, e rappresentava un gruppo di cavalieri e di fanti, tra cui Opi, re degli Iapigi, venuto in soccorso dei Peucezi, a terra dinanzi a Taras e a Falanto. A Taranto era, tra l’altro, la nota statua di Europa di Pitagora di Reggio, una delle poche opere d’arte che Q. Fabio Massimo non portò a Roma nel 209 a.C. come preda di guerra.
Il problema dell’esistenza di una scultura tarantina già nel VI o nel V sec. a.C. è appunto connesso con queste considerazioni, e cioè che, a parte che molte opere d’arte erano importate a Taranto direttamente dalla Grecia — e ciò anche per la mancanza di marmo nella nostra regione — operarono a Taranto artisti greci di diverse scuole e tendenze; e gli stessi artisti tarantini, sia perché perfezionati in vari centri della Grecia, sia perché seguenti le scuole dei diversi maestri greci operanti a Taranto, non potevano non derivare, da questa diversità di rapporti, un’arte forse meno pura, ma più varia ed eclettica, cui non poteva essere nemmeno del tutto estraneo, anche se a Taranto meno forte che in altre località della Magna Grecia, l’apporto indigeno delle vicine popolazioni dell’interno.
Questo eclettismo (che non si vorrebbe chiamare, come si è fatto, ibridismo) è interessante soprattutto nel VI e V secolo, quando al substrato dorico si sovrappongono, si aggiungono, e talora predominano anzi, le influenze ioniche, nella ricerca del movimento e della incisività di espressione che sono poi le caratteristiche peculiari della posteriore arte tarantina.
Che tuttavia già alla fine del VI secolo si possa parlare di arte tarantina, oltre ad una testa di Apollo di calcare locale, probabilmente acrolito di un tempio, è particolarmente significativo, a mio avviso, il Poseidon bronzeo, recentemente rinvenuto ad Ugento, ma probabilmente di scuola tarantina, che costituisce, credo, il miglior esempio a noi rimasto della grande statuaria bronzea magno-greca.
Senza addentrarmi nell’esame dell’opera, che mi riservo di fare in altra sede, desidero richiamare soltanto l’attenzione sul contrasto esistente tra la forte quadratura del corpo e la accuratezza minuziosa, anche se non calligrafica, della testa e soprattutto la trattazione delle trecce, dei riccioli a lumachella, della barba graffita nel bronzo, mentre la corona ornata di rosette — e questo elemento ritorna sulla decorazione della base marmorea trovata insieme alla statua — sembra tipicamente tarentina. In questa opera mi sembrano evidenti, e forse contrastanti, gli influssi ionici sul substrato peloponnesiaco, proprio per quell’eclettismo cui prima accennavo, e per cui non è da meravigliarsi che possa essere di produzione tarentina anche la notissima dea in trono di Berlino, di cui conosciamo l’esatto luogo di rinvenimento a Taranto.
Se anche infatti volessimo supporre, accettando una recente ipotesi, che essa, come altre opere eccezionali quali il trono Ludovisi, possa essere stata eseguita da maestranze ambulanti greche in cerca di ordinazioni, è certo che doveva rispondere in pieno allo spirito tarentino, se i tarentini la vollero come statua di culto di una delle divinità più venerate: il ritrovamento della statua a Taranto è a questo riguardo, a mio avviso, estremamente significativo.
Un’altra opera interessante è la nota testa di Atena di Taranto che si è supposta della stessa officina del maestro dei Niobidi. Il Langlotz ritiene che l’autore sia un maestro greco, divenuto poi artista della Magna Grecia, o anzi caposcuola di una serie di artisti, cui si devono probabilmente molte altre opere, tra cui l’Apollo dei Conservatori cui, secondo il gusto tarentino del tardo V secolo, sono stati aggiunti svolazzanti capelli di bronzo.
Non è qui però il caso di discutere i problemi pur attuali dell’arte della Magna Grecia o dell’arte tarentina in particolare, che potranno formare tema di prossimi convegni, ma solamente di richiamare l’attenzione sui rapporti che Taranto ebbe e con la sua diretta madrepatria Sparta e con altri centri greci, per cui l’arte di Taranto è più strettamente legata all’arte greca — dicendo greca come accezione generale, e pur nell’eclettismo dovuto alla varietà dei suoi rapporti con i diversi centri artistici greci — di quanto non lo siano altre colonie magno-greche: e perché Taranto era più vicina alla Grecia, e perché, anche proprio per questa stessa ragione, erano meno influenti i rapporti con gli indigeni.
Se però ritorniamo alla ceramica, che per la sua relativa abbondanza rispetto ad altre forme artistiche può forse meglio farci conoscere i rapporti di Taranto con la Grecia, notiamo che dopo i tanti vasi attici a figure nere importati nei primi due terzi del VI secolo la ceramica attica a figure rosse è estremamente scarsa a Taranto, con l’eccezione di un piccolo gruppo di lekythoi, di cui una della cerchia del pittore di Pan e un’altra della scuola del pittore di Berlino, più o meno contemporanee ad un più ampio gruppo di lekythoi a fondo bianco dei pittori di Atena e di Edimburgo, e ad un gruppo di bellissime kotylai a figure nere del pittore di Teseo. Questi vasi giungono ai primi decenni del V secolo a.C. e sono, praticamente, gli ultimi che Taranto importa dalla Grecia.
Che la mancanza a Taranto di vasi attici a figure rosse dipenda solamente dalla nostra scarsa conoscenza delle tombe di questo periodo non sembra infatti possibile, perché del V secolo si sono scavate numerose tombe, che se da un lato si distinguono per la particolare accuratezza della costruzione, sono d’altra parte molto povere nei loro corredi, a parte proprio una lekythos isolata e, spesso, un alabastro e uno strigile. D’altra parte vasi attici a figure rosse si trovano relativamente numerosi in altre
località pugliesi, sia del Salento che della provincia di Bari, per cui ho già supposto che a questi centri il materiale attico sia venuto direttamente da Atene e non tramite Taranto, il cui territorio era del resto, come si è detto, molto limitato come estensione, e la cui influenza sulle popolazioni apule, a parte forse il Salento, sembra molto più evidente nel IV secolo, dal tempo di Archita, ed in età ellenistica, che non prima.
Certo è che la diminuzione, se non la fine, dell’importazione di vasi figurati dalla Grecia già nella seconda metà del VI secolo — con l’eccezione del gruppo di lekythoi e degli altri pochi vasi cui si è accennato — non è, evidentemente, senza significato; e alle ragioni politiche ed economiche (si pensi alle gravi lotte che nel V secolo Taranto dovette sostenere con le popolazioni dell’interno e con altre colonie greche) sono probabilmente da aggiungersi anche ragioni cultuali derivanti forse dall’influenza dell’austerità della dottrina pitagorica, ragioni cui qui solamente si accenna, ma che meriterebbero un più approfondito studio.
Questo non vuole evidentemente significare, e per il V secolo e per i successivi, mancanza di rapporti con la Grecia. Le fonti ci informano che artisti greci, quali Lisippo, hanno dato a Taranto insigni opere d’arte, come il colosso di Zeus e l’Ercole, di cui abbiamo forse un riflesso in una testa del Museo, e statue greche ispirate alle opere di Prassitele, oltre che di Lisippo, si sono rinvenute in un certo numero a Taranto. Ma, anche nella scultura, in cui pur Taranto si trova in condizioni particolari per la mancanza di marmo, si sviluppano sempre più, nella grande serie dei rilievi di pietra tenera, quelle peculiari caratteristiche dell’arte tarentina che erano state prima evidenti soprattutto nella coroplastica, in cui molte volte l’abile figulo, facilitato dalla docilità della materia, aveva anticipato soluzioni artistiche interessanti: l’accentuazione dei movimenti delle figure, che porta talvolta ad una plastica quasi barocca, e l’incisività e la drammaticità dell’espressione.
Si è giunti così all’ellenismo, in cui Taranto è autosufficiente in quasi tutte le categorie artistiche, dalla scultura in pietra locale alla coroplastica e alla raffinatissima oreficeria; in cui per la ceramica figurata, tanto importante per i corredi tombali, si hanno fabbriche locali o scambi tra le fabbriche tarentine e le altre fabbriche italiote più famose, ma in cui certamente non vi è più, salvo casi particolari, importazione dalla Grecia, non vi è più una diretta dipendenza artistica dalla madrepatria.
NEVIO DEGRASSI