1964
Documenti dell’esistenza di santuari, di templi e in genere di luoghi di culto sono le stipi votive. E quando parliamo di stipi votive non possiamo che cominciare da Taranto. Dei luoghi di culto della città di Taranto si è molto discusso in ogni tempo; ma gli elementi sicuri di giudizio sono ancora assai scarsi. Le notizie, sempre piuttosto vaghe, ricavabili per lo più dai testi letterari, su cui si basa essenzialmente il lavoro già citato del Giannelli, anche se talvolta fanno allusione a divinità venerate nella città, non ci aiutano a determinare con esattezza il tipo, le caratteristiche e la ubicazione degli edifici sacri o delle aree in cui tali divinità erano venerate.
Dei luoghi di culto urbani, ad esempio, a parte le localizzazioni erudite, ma non controllate né controllabili, frequenti nella tradizione locale, unici elementi sicuri sono i ruderi del tempio dorico arcaico conservati nelle strutture della chiesetta della SS. Trinità, nella città vecchia, e comunemente attribuiti — ma senza alcun solido fondamento — a Poseidon, e otto frammenti marmorei rinvenuti durante lavori edilizi tra via Di Mezzo e vico Pace, sempre nella città vecchia, che hanno fatto ipotizzare l’esistenza, in quel luogo, di un tempio. Anche nell’attuale “città nuova”, dove si estendeva in antico la vastissima necropoli, nessuna localizzazione precisa di luoghi di culto è proponibile, né sulla base delle testimonianze letterarie, né su quella dei rinvenimenti di tracce monumentali. In questa parte della città, tuttavia, accanto alle tombe e ai monumenti funerari sono stati rinvenuti a più riprese, soprattutto durante le esplorazioni condotte da L. Viola alla fine del secolo scorso, numerosi e talvolta assai consistenti depositi di terrecotte figurate, databili dall’età arcaica fino all’epoca ellenistica. Lo stato frammentario di molte fra queste terrecotte fece sospettare al Viola che si potesse trattare non di depositi votivi, ma di scarichi di officine di figuli, il cui quartiere pare si estendesse nella contrada Vaccarella. L’ipotesi del Viola fu successivamente confutata dallo Evans e soprattutto dall’intensificarsi di scoperte di terrecotte in altre località dell’Italia meridionale. Ma anche se in qualche caso può ancora sussistere il dubbio che si tratti di scarichi di officine, in altri casi — e sono i più significativi per il nostro problema — la destinazione votiva è indiscutibile, sia per la coerenza tipologica degli esemplari, sia per l’ambito cronologico assai vasto in cui essi si distribuiscono.
Il rinvenimento di stipi votive deve necessariamente presupporre l’esistenza di santuari, almeno nel senso generico di luoghi di culto che abbiamo dato al termine. E santuari di questo genere non dovevano mancare nell’area dell’antica necropoli di Taranto, se si giudica dalla importanza di alcuni fra i depositi rinvenuti dal Viola.
Di essi il più notevole fu rinvenuto nel fondo Giovinazzi, nella zona che attualmente si estende dalla villa Peripato all’Arsenale Militare, e comprendeva circa 30.000 statuette fittili, databili dal VI al III a.C. e rappresentanti generalmente una figura virile, barbata o imberbe, semidistesa su una kline; è questa una delle raffigurazioni più caratteristiche e singolari nella serie delle terrecotte tarentine: la sua interpretazione non è ancora ben chiarita — Dionysos ctonio o defunto eroizzato —, ma la sua ampia distribuzione nel tempo e la frequenza dei rinvenimenti nei numerosi depositi o scarichi di terrecotte dell’antica necropoli della città denotano l’importanza, la diffusione e la durata del culto. Ma anche se esemplari di questo tipo si sono trovati, e si trovano ancora, un po’ dovunque a Taranto, il maggior numero, e la massima concentrazione dei rinvenimenti al fondo Giovinazzi impone di localizzare in questa zona il santuario che a quel culto si riferiva. Che tale santuario, o tempio come supponeva il Lenormant potesse sorgere nel luogo che fu poi occupato dalla chiesa di S. Francesco di Paola e che oggi è il carcere della città, è ipotesi non corroborata da alcuna prova concreta.
Non vi può essere dubbio, tuttavia, che un luogo di culto esistesse in quella zona.
Un secondo, anch’esso assai consistente, gruppo di terrecotte fu rinvenuto, anch’esso negli scavi Viola, in un deposito a Punta Pizzone, presso il Mar Piccolo: comprendeva alcune migliaia di statuette, in gran parte femminili, riferibili al culto di Kore-Persefone e risalenti fino al VII secolo a.C. Anche in questo caso il concentrarsi in una stessa zona di un così gran numero di statuette relative allo stesso culto attesta l’esistenza, in detta zona, di un luogo di culto di alta antichità e di notevole risonanza.
Purtroppo, anche in questa area, nessuna traccia di edifici o di costruzioni è stata mai rinvenuta. Tuttavia, in occasione dello scavo per il recupero delle terrecotte, il Viola rilevò e segnalò l’esistenza di numerose nicchie scavate nella roccia e, soprattutto, di un frammento di iscrizione arcaica, di cui l’unica parola chiaramente leggibile, ΑΝΕΘΕΚΕ, dimostra il carattere dedicatorio. Né bisogna dimenticare che non lontano da questa zona era stata intenzionalmente seppellita, per sottrarla evidentemente a saccheggi in un’epoca non precisabile, ma certamente assai antica, la famosa statua di Persefone, che poi, fortuitamente tornata alla luce ed avventurosamente esportata, divenne celebre col nome di “dea seduta” di Berlino.
Un altro deposito di terrecotte, assai più limitato per il numero degli esemplari, ma di notevolissimo interesse per il culto che documenta, è quello rinvenuto presso la attuale chiesa del Carmine e costituito da pinakes votivi con raffigurazioni dei Dioscuri. Il Petersen, che ne fece oggetto di un ampio studio, vi riconobbe ben 40 tipi, databili dal IV al II secolo a.C. Ma, anche qui, di edifici o di impianti per culto nessuna traccia. L’esistenza di elementi relativi ad un edificio cultuale fu supposta invece dal Viola sulla riva del Mar Grande, nella località detta Castel Saraceno, che corrisponde all’ultimo tratto dell’attuale lungomare Virgilio. Qui, dove una tradizione locale ubicava un tempio, dedicato a Poseidon, il Viola, nel 1881, fra i cospicui resti di un impianto termale di età romana, e in nessuna evidente relazione con essi, rinvenne «alcuni blocchi di càrparo, di forma parallelepipeda», e accanto a questi, una grande quantità di statuette fittili rappresentanti Apollo con vari attributi (lira, patera, gallo, ecc.) o altre figure collegabili al culto di questa divinità. Se il deposito di statuette sia da identificare con la stipe di un santuario di Apollo, «probabilmente posto lì vicino e distrutto quando i Romani costruirono le terme», come suppose il Viola e come potrebbe far pensare il rinvenimento dei blocchi di cárparo citati, non siamo più in grado purtroppo di controllare, per la malaugurata distruzione, in quel luogo, di ogni traccia dei reperti, seppelliti, or non è molto, sotto le tonnellate di cemento del “grattacielo” di Viale Virgilio. Ed è grave perdita, perché, se controllata e confermata, sarebbe stata questa l’unica traccia, nell’ambito della necropoli compresa nel recinto delle mura della città, di costruzioni cultuali, tanto più interessanti in quanto riferibili a un culto di Apollo, di cui le antiche fonti non sembrano far cenno se non fuori della cinta urbana.
Infatti, l’unica testimonianza concreta di un culto di Apollo a Taranto, a parte l’incerta, e non sicuramente probante, raffigurazione su un’arcaica moneta incusa, era sinora quella di Polibio che, narrando la conquista della città da parte di Annibale, attesta l’esistenza, fuori delle mura, di un τάφος attribuito ad Apollo Hyakinthos, dal quale i Cartaginesi avrebbero dato e ricevuto il segnale convenuto con i congiurati rimasti all’interno della città. La localizzazione di questo τάφος ha impegnato a lungo, e con accanimento, l’acume di storici, filologi ed eruditi locali, nello sforzo di precisare, sulla base di questo importante elemento topografico, le fasi dell’attacco cartaginese e, di conseguenza, la impostazione urbanistica della città. Narra infatti Polibio, la principale e più diffusa fonte sull’argomento, che Annibale, dopo aver preso precisi accordi con i congiurati capeggiati da Nikon e Philemenos, parte dal suo campo con un forte gruppo di truppe scelte e si avvicina nascostamente al lato orientale della città; qui giunto in piena notte sotto la guida di Philemenos, presso la porta Temenide, accende un fuoco sulla tomba di Hyakinthos (o, secondo altri, come precisa Polibio, di Apollo Hyakinthos), per dare il segnale ai congiurati che, all’interno delle mura, si erano radunati nella zona della necropoli, lontano dalle abitazioni, presso la tomba di Pythionikos. A tale segnale i congiurati sorprendono le guardie e aprono la porta ai Cartaginesi. Superate le mura, Annibale si dirige verso l’agorá, mentre Philemenos, con uno stratagemma, riesce a sopraffare i guardiani della porta vicina e a far entrare in città un altro gruppo di Cartaginesi, che raggiunge il primo nella stessa agorá.
Dal passo di Polibio, dunque, si deduce che almeno due erano le porte sul lato orientale della città: l’una, chiamata Temenide, era presso la tomba di Hyakinthos (o Apollo Hyakinthos), l’altra non doveva essere lontana (παρακειμένη). Inoltre, per giungere dalla porta Temenide all’agorá, Annibale e i suoi uomini si diressero κατὰ τὴν πλατεῖαν τὴν ἀπὸ τῆς βαθείας ἀναφέρουσαν. È evidente che l’ubicazione anche di uno solo di questi elementi topografici (tomba, porta, via) potrebbe aiutare a localizzare gli altri. E a questo proposito giova citare un altro passo dello stesso Polibio, in cui, a proposito della fortificazione eretta a sua volta da Annibale, dopo la conquista della città, per fronteggiare i Romani rimasti arroccati nell’acropoli, si precisa che egli costruì un τεῖχος, ἀρξάμενος ἀπὸ τῆς Σωτείρας ἕως εἰς τὴν βαθεῖαν προσαγορευομένην. Da ciò si deduce che le due vie dovevano costeggiare l’una il Mar Grande, l’altra il Mar Piccolo, anche se dal passo in questione non si può ricavare quale si riferisca all’uno e quale all’altro. Finora, in mancanza di chiare indicazioni letterarie e archeologiche, la chiave per la risoluzione dell’intera questione è stata cercata in una tradizione erudita locale, che ubicava la tomba di Hyakinthos in una località, l’Erto del Cicalone, presso il Mar Piccolo, a poco più di un chilometro all’esterno del presunto tracciato della cinta muraria della città.
Ne conseguirebbe che la porta Temenide si trovava nella parte settentrionale della cinta e si apriva, all’esterno, più o meno direttamente sulla via Appia, mentre all’interno dava inizio alla via βαθεία, che costeggiava il Mar piccolo e che fu seguita da Annibale per raggiungere l’agorá. Di conseguenza, la via Σώτειρα sarebbe all’estremità meridionale, lungo la costa del Mar grande.
Tuttavia un rinvenimento archeologico, non recente ma sinora inedito e pertanto ignoto a molti, ripropone tutto il problema in maniera nuova. Nel 1950, durante lavori agricoli nella masseria del Carmine, presso la villa Acclavio, fu rinvenuto un deposito di statuine fittili che per la sua unità, per le sue caratteristiche e per le circostanze di rinvenimento, è chiaramente una stipe votiva, riferibile, altrettanto chiaramente, al culto di Apollo. Nonostante che la casualità e le fortunose circostanze del rinvenimento non abbiano consentito di recuperare e conservare tutto il materiale venuto alla luce, né di condurre uno scavo regolare e completo, pure le notizie e le osservazioni raccolte dal solerte assistente A. Campi, della Soprintendenza alle Antichità di Taranto, permettono di precisare alcuni dati importanti: le statuine si trovavano ordinatamente sepolte, a strati, in una serie di favissae circolari, del diametro di m. 3 e della profondità di m. 4 circa, regolarmente disposte a eguale distanza l’una dall’altra e divise da viottoli in terra battuta. Gli esemplari completi, o quasi, conservati nel Museo di Taranto (una piccola scelta tipologica è esposta in una delle vetrine del corridoio delle terrecotte) sono attualmente circa 3.000, ma la consistenza della stipe doveva essere assai maggiore, se si tien conto del fatto che molti pezzi furono trafugati al momento del rinvenimento e gran numero di frammenti minuti e indecifrabili fu disperso o distrutto.
Le statuine — in verità, più che di statuine, bisognerebbe definirle rilievi in quanto non sono modellate a tutto tondo (eccetto tre soli esemplari), ma ricavate da matrici riproducenti solo la parte anteriore della figura — corrispondono ad una tipologia fortemente unitaria: un tipo maschile fondamentale, nudo e con clamide variamente drappeggiata dietro le spalle, e un tipo femminile vestito di chiton con apoptygma e himation, ambedue impostati con atteggiamenti analoghi su una basetta e muniti talvolta degli stessi attributi (patera, cetra, gallo, cigno, cornucopia nella mano sinistra, pomo, grappolo d’uva, plettro, prochoe nella destra). Cronologicamente i tipi presenti nella stipe possono essere inquadrati tra il IV e il III sec. a.C. e stilisticamente risentono, soprattutto i più antichi, del clima artistico influenzato dalla personalità dei grandi maestri del IV secolo, in primo luogo Prassitele. La stipe della masseria del Carmine trova esatto riscontro, nell’ambito della città di Taranto, nel deposito di terrecotte, più sopra citato, di Castel Saraceno, in cui ricorrono gli stessi tipi con gli stessi atteggiamenti ed attributi.
Con quali divinità possono essere identificate le nostre terrecotte?
La figura maschile è caratteristicamente riferibile a un tipo apollineo. Ora, il culto di Apollo in Taranto, a quanto risulta dalla tradizione letteraria e dalla documentazione archeologica, era assai poco diffuso. Le uniche testimonianze possono essere costituite dalla raffigurazione di una figura giovanile ignuda, con in mano una lira e un fiore, su una rara emissione di monete incuse della fine del VI sec. a.C., da una testa sul D/ di una moneta d’oro della fine del IV sec. a.C., nonché dal citato passo di Polibio relativo alla tomba di Hyakinthos. In tutti i casi quindi, Hyakinthos e Apollo risultano a Taranto strettamente connessi, tanto da divenire l’uno un epiteto dell’altro. Non vorrei in questa sede addentrarmi nelle complesse questioni relative al culto di Hyakinthos, all’iconografia di questa divinità ed alla sua assimilazione con Apollo: esse saranno compiutamente trattate, insieme agli altri problemi posti dalla stipe del Carmine, nella pubblicazione di questo interessante complesso. Mi limito quindi ad accennare che Hyakinthos, originario forse, e certamente tipico, di Amicle, e diffuso nel Peloponneso, fu di lì importato a Taranto dove avvenne probabilmente l’identificazione con Apollo, di cui assunse anche aspetto ed attributi, tanto più che non pare che in Grecia egli avesse un’iconografia chiaramente caratterizzata; inoltre il suo culto assunse a Taranto carattere ctonico, come lasciano supporre il passo di Polibio, dove si parla della sua tomba, e alcuni fra gli attributi ricorrenti nella stipe del Carmine. Alla cerchia di Hyakinthos dovrà quindi essere ricondotta anche la figura femminile presente nella nostra stipe: essa potrebbe essere identificata con Polyboia, sorella del dio, che compariva accanto a lui nel dipinto raffigurante la loro apoteosi, eseguito, secondo Pausania (III, 19, 4) da Nicia sul monumento funerario (anche qui un τάφος) dedicato a Hyakinthos in Amicle.
Stando così le cose, la stipe della masseria del Carmine può essere considerata connessa al culto di Hyakinthos, ed il centro di questo culto, il τάφος dell’eroe, dovrà essere localizzato all’esterno del tratto meridionale della cinta muraria e non più in quello settentrionale, come sinora supposto. L’esistenza di una stipe autorizza l’ipotesi di un santuario, sia pure inteso semplicemente come luogo di culto. Perciò non mi pare necessario, con il Wuilleumier, forzare la fonetica per collegare le Τημενίδας πύλας di Polibio col preteso τέμενος connesso con la tomba dell’eroe.
E, visto che ho già fatto questa così lunga digressione, mi si consenta di soffermarmi ancora un poco sull’argomento, per trarne qualche ulteriore conclusione sulla topografia dell’antica Taranto.
Se la tomba di Hyakinthos era nei pressi della masseria del Carmine, la porta Temenide non doveva esserne lontana. E infatti proprio in quella stessa zona, a poche centinaia di metri dal luogo di rinvenimento delle terrecotte, nell’unico tratto conservato e ancora visibile del muro di cinta della città, si apre una porta (tav. XII); attraverso questa porta passava una strada, il cui tracciato perfettamente rettilineo si legge con assoluta chiarezza in una fotografia aerea eseguita qualche anno fa, quando la zona non era stata ancora invasa dalle nuove costruzioni; tale strada corrisponde quasi esattamente al percorso dell’attuale corso Italia (già via Murivetere) e dovette essere fiancheggiata, in età romana, dall’acquedotto di cui qualche traccia ancora resta conservata sullo spartitraffico dell’odierna arteria. Un po’ più a sud, un’altra via è documentata dalla stessa fotografia aerea: essa doveva entrare in città a poche centinaia di metri di distanza dalla precedente, attraverso un’altra porta di cui nessuna traccia è più conservata. È in questa zona, quindi, che deve essere ubicata la porta Temenide, anche se non è possibile definire con assoluta esattezza se essa sia da identificare con quella ancora visibile o con l’altra (o altre) immediatamente adiacente. Ne consegue che la via βαθεῖα, che Annibale percorse per raggiungere l’agorá, doveva aver origine qui e correre poi lungo il Mar grande, mentre la Σώτειρα doveva costeggiare il Mar piccolo, e non viceversa come sinora supposto.
Ma anche questo, della topografia di Taranto antica, è un problema complesso e intricato che non può essere trattato in questa sede. Esso richiede un’ampia ed esauriente indagine, basata sull’esame dell’enorme materiale raccolto in circa un secolo di ininterrotti scavi e rinvenimenti sporadici verificatisi soprattutto nell’ambito della necropoli dell’antica città, e solo in minima parte pubblicato. Tale materiale, almeno quello conservato nel Museo di Taranto e proveniente dalle più recenti ricerche, risulta per lo più corredato della documentazione necessaria (notizie di rinvenimento, dati di associazione, rilievi, fotografie), è stato sottoposto a restauro e ad una prima, sia pur provvisoria, classificazione, è facilmente reperibile nei ben ordinati depositi del Museo. La situazione è quindi matura per iniziarne uno studio globale, che consentirebbe di porre su nuove e ben concrete basi il problema, non solo della topografia, ma della vita stessa, culturale, economica, sociale, della città antica. Perciò la Soprintendenza, pur essendo cosciente che con la sua attuale organizzazione e con le sue sole forze non è per ora in grado di intraprendere questo oneroso compito, ha concepito il progetto di redigere una carta archeologica di Taranto, al fine di offrire agli studiosi, in forma semplice ma scientificamente utile, una documentazione preziosissima e pressoché ignota. Se le circostanze ce lo consentiranno, se otterremo gli aiuti e la collaborazione che abbiamo vivamente sollecitato da più parti, sarà forse possibile, fra qualche anno, dedicare uno dei nostri Convegni alla città che ci ospita. Sarà questa la migliore maniera per ringraziarla e per mostrarle il nostro apprezzamento.
Ma torniamo (e chiedo scusa delle troppo lunghe digressioni) al nostro argomento. Da quanto ho sinora ricordato o esposto, risulta che a Taranto la documentazione più abbondante e più sicura si riferisce a culti di tipo ctonico, che costituivano evidentemente — e lo ha precisato anche il prof. Pugliese Carratelli nella sua relazione — la caratteristica più tipica della vita religiosa dell’antica città. Ma alla diffusione e all’importanza di questi culti non pare corrisponda l’esistenza di impianti monumentali, o comunque di edifici sacri, che possano far supporre la presenza di veri e propri santuari. È, anche questo, un problema che merita attenzione e che spero si possa un giorno affrontare con più approfondita documentazione.
ATTILIO STAZIO