Dal 1961 al 1970

1966

Nella zona della necropoli orientale, là dove l’espansione edilizia della città odierna provoca frequentemente la scoperta di antiche sepolture, è stato possibile recuperare, più o meno fortunosamente, una buona quantità di materiale. Meritano, fra l’altro, di essere segnalati: il corredo di una tomba femminile (via Molise, 11 marzo 1966) in cui, accanto a vasetti a vernice nera e ad una statuina muliebre in terracotta figurano due orecchini aurei a protome leonina e un anello anch’esso aureo, di tipo spiraliforme desinente in due protomi, anch’esse leonine (tav. XIV, 3); un altro corredo tombale (viale Magna Grecia, 21 ottobre 1965) costituito da una lekythos ariballica a vernice nera e da una pelike attica a figure rosse, della metà del IV sec. a.C. ca., con la raffigurazione di un Poseidon imberbe e di una figura femminile, che potrebbe essere Amimone.

Inoltre, fra gli elementi di un naiskos funerario (via Romagna, 26 aprile 1966) è stato recuperato un grosso frammento di rilievo in pietra tenera, evidentemente parte di un fregio, databile probabilmente al III sec. a.C. (tav. XIV, 1).

Infine da un corredo tombale di viale Liguria dell’inizio del 111 sec. a.C., costituito da una dozzina di vasetti, per lo più del tipo di «Gnathia», oltre che da un gruppo di appliques in terracotta dorata, evidentemente ornamento del letto funebre, proviene un piccolo vaso globulare, baccellato, verniciato in nero e con iscrizione sovradipinta in bianco sulla spalla ΔΙΟΣ ΣΩΤΗΡΟΣ (tav. XIV, 2). Di un’iscrizione analoga l’unico esempio a me noto è quello che ricorre sul collo di un cratere di tipo «Gnathia» proveniente da Fasano ma attribuito a fabbrica tarantina e conservato al British Museum (F. 548), la cui cronologia è stata, qualche tempo fa, precisata dalla Forti al terzo venticinquennio del IV sec. a.C. Essa — è stato osservato — deve essere collegata alla consuetudine di dedicare, nei banchetti, il terzo cratere a Zeus Soter; ma ancora più calzante appare il richiamo ad un passo di Ateneo (XI,166 e Kaibel), che cita a sua volta un dialogo del tarentino Alexis, in cui si nomina l’iscrizione Διὸς σωτήρος dipinta in lettere d’oro su un vaso. Se agli esempi ora citati si aggiungono quelli con iscrizione Λύκωνος tornati alla luce nella stessa necropoli tarantina e illustrati nel Convegno dello scorso anno (cfr. Atti V, p. 247 s.), comincia a rivelarsi con una certa consistenza la presenza, a Taranto, di quella categoria γραμματικὰ ἐκπώματα, che sinora sembrava diffusa soprattutto nella ceramica attica e specialmente in quella della «pendice occidentale». E la circostanza acquista un più preciso interesse se si tiene presente che la ceramica sovradipinta, a cui i nostri vasi appartengono, risulta che sia stata creata proprio a Taranto e in questa città abbia avuto il suo maggiore sviluppo.

Ma la ricerca più importante e più impegnativa, che la Soprintendenza ha condotto a Taranto negli ultimi anni è stata quella relativa al tempio dorico arcaico della città vecchia, comunemente detto di Poseidon. Su questo argomento occorre che ci soffermiamo un po’ più diffusamente, anche perché proprio in questa sede, due anni or sono, fu emesso un voto auspicante la esplorazione di questo eccezionale monumento, e lo scorso anno ebbi io stesso la possibilità di annunziare l’imminente inizio dei lavori di scavo. Prima tuttavia, di illustrare i risultati delle ricerche effettuate fino ad oggi, penso sia opportuno riassumere brevemente la storia, lunga e travagliata, del monumento.

Le più antiche notizie sul nostro tempio sono in un manoscritto inedito di Ambrogio Merodio, la Historia Tarantina, composto verso la fine del 1600 e conservato nella Biblioteca comunale di Taranto: vi si legge che il tempio, comunemente detto di Diana, sorgeva «dove hora è il monastero delli P.P. Celestini, di cui si vedano alcune smisurate e meravigliose colonne…». Tali colonne dovevano essere almeno una diecina, se nel 1771 Cataldantonio Atenisio Carducci, nel suo commento alle Deliciae Tarentinae di Tomaso Nicolò D’Aquino, poteva ancora scrivere (III, p. 393): «Sappiamo che Diana in Taranto ebbe anche il suo tempio, di cui fino all’età dei nostri avoli si son vedute le reliquie; tra le quali dieci spezzoni di colonne d’ordine dorico, che poi infrante furono poste in uso per la fabbrica del Monastero de’ PP. Celestini. N’esiste tuttavia una dentro l’ospedale de’ Pellegrini, attaccato alla chiesa di quei Padri…».

Da un altro documento, redatto nel 1745 e conservato, anche esso inedito, nell’archivio della Curia arcivescovile di Taranto, si apprende che nell’antico tempio, qui attribuito a Venere, i primitivi Cristiani avevano eretto un altare dedicato alla Vergine Madre dei Martiri e che successivamente sullo stesso luogo venne costruita una chiesa, consacrata a quella Madonna; detta chiesa all’inizio del 1400 fu donata ai PP. Celestini che nel 1450 vi costruirono il loro monastero, che poi, demolito nel 1729, fu riedificato «più bello, comodo e maestoso». A quest’epoca, quindi, deve essere attribuita la definitiva distruzione dei resti del tempio, la cui esistenza rimase documentata dalla unica colonna visibile nel cortile dell’ospedale dei Pellegrini, attiguo al suddetto convento; di questa colonna, successivamente deturpata e mascherata anch’essa da moderne strutture in conseguenza degli adattamenti subiti dall’edificio, restava in vista, fino a qualche mese fa, il solo capitello, nel suggestivo cortiletto annesso alla cappella della SS. Trinità, nell’area dell’ex ospedale dei Pellegrini (tav. XV, 1).

Un’altra notizia, indiretta ma non per questo meno interessante, si ricava da una relazione tecnica redatta in data 13 gennaio 1866 dall’architetto Davide Conversano, costruttore dell’attuale palazzo del Municipio, con la quale veniva segnalata al Sindaco la necessità di corrispondere alla ditta appaltatrice un sovraprezzo per aver dovuto approfondire lo scavo di fondazione del costruendo edificio oltre i 7 metri e «tagliare antiche fabbriche trovate nel corso della fondazione stessa… in sette punti diversi». Successivamente, da un verbale della seduta del Consiglio Comunale del 21 giugno 1894 risulta che l’ing. Angelo Galeone, assessore ai lavori pubblici, riferì che durante i lavori di consolidamento eseguiti alle fondazioni dello stesso palazzo Comunale, si rinvenne presso l’angolo N.W. del fabbricato, un capitello del tipo e delle dimensioni di quello conservato in situ nel cortile dell’ex ospedale dei Pellegrini.

Purtroppo la segnalazione, tempestivamente fatta al Ministero della Pubblica Istruzione, rimase senza risposta, sicché il capitello fu lasciato al suo posto, fortunatamente intatto.

Queste sono le notizie che antiche cronache e più recenti documenti ci hanno tramandato sul nostro tempio, e non sono invero abbondanti né esaurienti. Ad esse bisogna aggiungere i risultati dei saggi che nel 1881 furono eseguiti, ai piedi della colonna superstite, da Luigi Viola, il primo e il più benemerito indagatore delle antichità tarentine, e che finora hanno costituito gli unici dati concreti per una indagine sul monumento. Il Viola, dopo aver liberato il fusto della colonna, nella parte fuori terra, dai vari strati di intonaco sovrappostivi, ed aver constatato i guasti che ne avevano deturpato l’originario aspetto, praticò uno scavo fino alla profondità di m. 2,50 dal piano di calpestio del cortile, giungendo così a mettere in luce i rocchi inferiori della colonna, ancora intatti, e la parte superiore dello stylobates. Poté così calcolare che l’altezza complessiva della colonna, dal piano dello stylobates alla faccia superiore dell’abaco, era di m. 8,47, il diametro inferiore misurava m. 1,90, quello superiore m. 1,55 e il numero delle scanalature ammontava a 24. Inoltre, operando un piccolo saggio nel muro della sacrestia della cappella, all’altezza del capitello visibile, ne individuò un secondo, quasi completamente incastrato nelle strutture murarie, ma chiaramente in situ. In conseguenza, poté calcolare facilmente la misura dell’interasse in m. 3,72.

Da allora nessun’altra esplorazione è stata più effettuata e ì dati del Viola sono stati — insieme alla diretta osservazione del capitello visibile — i soli elementi sui quali i più autorevoli studiosi di architettura greca, da Koldewey e Puchstein al Dinsmoor, si sono dovuti necessariamente basare per tentare di individuare le principali caratteristiche del monumento. Era ovvio infatti che ogni ulteriore indagine non poteva essere eseguita se non a costo della demolizione, parziale o totale, delle costruzioni esistenti. Ma come sarebbe stato possibile soltanto immaginare un progetto del genere, se il Convento dei Celestini era ormai divenuto Comando della Piazza durante l’occupazione francese, padiglione militare al ritorno dei Borboni nel 1818 e, infine, Distretto militare dopo l’annessione al Regno d’Italia nel 1860? Di fronte alle esigenze strategiche di quella che si avviava a diventare la più importante base navale dell’Italia meridionale, ogni sogno di intervento archeologico era destinato a rimanere fra le aspirazioni deluse di pochi appassionati. Tuttavia anche i Distretti militari, anche se ex comandi di piazza, ed ex conventi, hanno una vita circoscritta nel tempo. Ed anche di quell’edificio, a un certo momento, si iniziò la demolizione. Per ricercare i ruderi del tempio? Niente affatto. Per costruire il palazzo delle Poste.

La città, infatti, nel suo rapido sviluppo dopo la prima guerra mondiale, rivelava urgente bisogno di un nuovo edificio da adibire a quello scopo, ed il Ministero competente non trovò area migliore che quella occupata dall’ex convento dei Celestini. Non mancò, in quell’occasione, chi segnalò l’inopportunità della scelta, sia dal punto di vista urbanistico sia da quello storico e archeologico, ma le flebili voci dei dissidenti non valsero a dissuadere i promotori della nuova opera. Il vecchio convento fu demolito e si iniziò il lavoro di fondazione del nuovo edificio.

Ma vi era qualcuno che tacitamente vigilava. E quando, in una mattina del 7 luglio 1927, durante i lavori di sbancamento riapparvero alla luce, né imprevisti né inattesi, i primi blocchi di carparo, regolarmente squadrati e connessi secondo la tipica tecnica delle costruzioni templari greche di età arcaica, il prof. Q. Quagliati, allora Soprintendente alle Antichità della Puglia, intimò dal Ministero delle Comunicazioni alla diversa utilizzazione dell’area già prescelta per la costruzione del nuovo Palazzo delle Poste non avranno altro seguito…».

Fu così che la ditta appaltatrice dovette rinunziare al risarcimento dei danni e il Ministero delle Comunicazioni all’indennizzo. Il Palazzo delle Poste sorse, non bello ma più centrale ed efficiente, nei quartieri nuovi di Taranto. Ma la città più prolifica d’Italia non riebbe, nemmeno in quell’occasione, il suo tempio. Il progetto di scavo e di isolamento, vigorosamente e appassionatamente sostenuto dal Quagliati, naufragò fra gli scogli di infinite difficoltà burocratiche e amministrative, finché l’area dell’ex convento, dopo anni di indecoroso abbandono, venne finalmente ceduta al Comune che la sistemò, alla men peggio, con quattro alberi e qualche stentata aiuola, a mo’ di pubblico giardino.

Da quel momento ogni sforzo per riprendere gli scavi e rimettere in luce i resti del monumento risultò sempre vano. Anche quando il Soprintendente Ciro Drago sembrava aver condotto in porto una proficua trattativa, la seconda guerra mondiale bloccò di nuovo ogni iniziativa.

L’ostacolo più grave era rappresentato dalla difficoltà di acquisizione o di esproprio dell’edificio costituito dalla chiesetta della S.S. Trinità e dall’ex convento dei Pellegrini (oggi palazzo Mastronuzzi), nel cui ambito erano, in parte visibili, in parte accertati dai saggi del Viola, i resti delle antiche strutture del tempio. Ma a prescindere da una certa, iniziale opposizione delle autorità ecclesiastiche a cedere la parte di loro pertinenza, non era stato mai possibile ottenere, dal Ministero della Pubblica Istruzione, i fondi necessari per l’acquisizione dell’edificio. Tanto maggior valore e significato, quindi, acquista la recente decisione dell’Amministrazione Comunale di Taranto di assumere a proprio carico l’esproprio in questione e di mettere a disposizione della Soprintendenza ogni altra area utile per l’esecuzione dei saggi. Finora è stato perfezionato l’acquisto della parte dell’edificio pertinente all’autorità ecclesiastica e cioè del settore prospiciente via Duomo, ed in questo settore, quindi, hanno avuto inizio i lavori di demolizione e di esplorazione. Tali lavori, tuttavia, sono stati condizionati, oltre che dalla assoluta inadeguatezza dei fondi impiegati a questo fine, dalla difficoltà tecnica di procedere alle necessarie demolizioni, in un edificio che, come ho già detto, per il momento è solo parzialmente disponibile (tavv. XVI e XVII).

Ciò premesso, l’inizio dei sondaggi non poteva che partire dai dati acquisiti dal Viola nel 1881, anche perché era precisamente quella l’area che, essendo entrata in nostro possesso, permetteva di operare qualche prudente demolizione. Liberato, quindi, il cortile attiguo alla chiesetta della SS. Trinità da molte costruzioni posticce (scale, ballatoi, stanzette, ecc.), si è operato un saggio a E, o meglio a N E, della colonna visibile — lungo l’allineamento di questa con l’altra di cui il Viola aveva individuato il capitello — ad una distanza corrispondente alla larghezza dell’intercolunnio.

Era nostra speranza ritrovare lì tracce dello stylobates che il Viola aveva appena intravisto ai piedi della colonna, ma che non aveva potuto mettere in luce a causa della estrema ristrettezza dello spazio. La fortuna ci è stata propizia, perché a ca. 1 metro dal piano del cortile abbiamo incontrato i tre rocchi inferiori di un’altra colonna, ottimamente conservati e perfettamente in situ sullo stylobates intatto (tav. XVIII). Allargato allora lo scavo, per i pochi metri in cui era possibile farlo senza pregiudicare la stabilità delle volte dell’edificio confinante (siamo: infatti, all’estremo margine dell’area sinora espropriata), abbiamo potuto accertare i seguenti dati.

Il diametro inferiore della colonna è di m. 2.05 e non di m. 1,90, come scriveva il Viola (e dopo di lui il Wuilleumier e il Pace) che evidentemente misurò l’angolo interno delle scanalature dell’altra colonna da lui esplorata (questa circostanza fu già notata da Koledwey e Puchstein e la misura esatta fu riportata dal Dinsmoor).

Lo stylobates appare costituito da due filari di blocchi, disposti tutti per testa, lunghi, nel filare inferiore, m. 2,90 ca, nel filare superiore m. 2,45 ca e alti tutti m. 0,45 ca. Il tempio, quindi presentava, almeno su questo lato, due soli gradini ed era impostato direttamente sul banco roccioso, che appare pertanto intaccato e livellato per accogliere i blocchi del filare inferiore.

Altri tagli, tuttavia, si notano sul piano di roccia e sembrano resti di impostazione di costruzioni anteriori al tempio. La limitatezza dell’area in cui è stato possibile operare il saggio di scavo impedisce, per ora, di avanzare ipotesi sulla natura e sull’epoca di tali eventuali costruzioni, anche se il rinvenimento, quasi a livello della roccia, di qualche frammento di ceramica geometrico-japigia costituisce un elemento di non trascurabile rilievo (tav. XV,2).

Inoltre, l’esistenza di due soli filari sovrapposti di blocchi dimostra che lo stylobates era limitato elusivamente al boro esterno del basamento, con funzione di sostegno delle colonne. Nessuna traccia, infatti, di lastre o blocchi si nota all’interno del basamento, né i segni rilevati sulla roccia, almeno là dove essa è stata raggiunta dallo scavo, denotano la impostazione di una qualsiasi pavimentazione lapidea. Ma c’è di più. Proprio all’interno del basamento, esattamente a livello dello stylobates, sono state individuate tracce di uno strato biancastro uniforme e continuo, che assai chiaramente si intravede sotto i muri delle costruzioni moderne, ai margini del saggio di scavo (tav. XVIII). Purtroppo, l’impossibilità, allo stato attuale, di operare la demolizione di detti muri impedisce di esaminare il materiale sottostante quello strato per controllare la datazione del battuto. Tuttavia, da un primo e approssimato esame, parrebbe di poter dedurre che non si tratta del pavimento originario, bensì di un rifacimento non anteriore al III sec. a.C.

Ancora un altro dato mi pare degno di nota: sopra lo strato del battuto, verso l’angolo S. W. dello scavo, il terreno appare molto nero e contiene numerosi resti di ossa, fra i quali sembra di poter riconoscere denti o zanne di suini. È evidente che si tratta di un riempimento fatto dopo la distruzione del tempio (è infatti sopra il pavimento), ma la natura della terra rende non inverisimile l’ipotesi che essa provenisse dalla zona adiacente l’altare contenesse quindi resti dei sacrifizi.

Infine, nella stessa area, è stato rinvenuto un frammento di colonna, anch’esso scanalato, ma assai più piccolo delle altre (diametro: m. 0,56; altezza: m. 1,05). Non è possibile, allo stato attuale delle indagini, precisare la sua pertinenza al tempio e individuare la sua destinazione, anche se non è facile rinunziare all’allettante ipotesi che essa appartenesse a un ordine superiore di colonne all’interno del tempio, a somiglianza di quanto, ad esempio, è documentato nel tempio c.d. di Poseidon a Paestum (tav. XVIII).

Il positivo risultato del saggio ora descritto ha indotto a estendere l’esplorazione più a Oriente, nell’area del giardino pubblico antistante l’edificio, là dove a suo tempo sorgeva il Convento dei Celestini e la tradizione, di cui abbiamo fatto cenno, riferiva l’esistenza di dieci spezzoni di colonne almeno fino al sec. XVII. Qui, trattandosi di area assolutamente libera e scoperta, lo scavo non presentava difficoltà.

Purtroppo, almeno fino a questo momento, la ricerca ha avuto esito negativo, in quanto si è constatato che i lavori per la costruzione del convento e le successive sue trasformazioni avevano inciso in profondità l’intero banco di roccia, che per largo tratto era addirittura servito da cava di pietra e non conservava quindi alcuna traccia né delle strutture, né della impostazione stessa del tempio. Non è naturalmente da escludere che il prosieguo dello scavo possa riservare felici sorprese, tanto più che dovrebbero essere rimasti in situ almeno quei blocchi in carparo che provocarono, da parte del Quagliati: il divieto di costruzione del palazzo delle Poste; ma finora nulla è riemerso, salvo qualche coccio di ceramica e qualche frammento di statuine fittili. su cui avrò; occasione di soffermarmi più innanzi.

Non restava, quindi, che rientrare nell’ex Ospedale dei Pellegrini e riprendere il lavoro da talpe in quegli ambienti e in quelle aree dove fosse possibile operare senza eccessivi rischi. L’elemento da seguire era evidentemente l’allineamento dei blocchi dello stylobates, e infatti lungo questa direttrice sono stati eseguiti altri saggi, non soltanto nei locali già in nostro possesso, ma anche nell’attiguo edificio, un tempo sede del Convento di S. Michele, poi Caserma dei Carabinieri ed ora di proprietà dell’Amministrazione provinciale di Taranto, alla cui pronta e sensibile comprensione sono lieto di rinnovare, in questa sede, il più vivo e sincero ringraziamento.

Dato che il fine di questa fase preliminare di indagini era soltanto quello di accertare la eventuale esistenza e consistenza dei resti dell’antico edificio, allo scopo di poter delineare su concreti elementi un progetto organico di isolamento e di restauro, non era necessario rimettere in luce le strutture già raggiunte dal Viola, e pertanto si è preferito operare un saggio nei muri dell’edificio e al disotto dell’odierno pavimento, in corrispondenza di quel secondo capitello parzialmente individuato dal Viola nella sacrestia della cappella della SS. Trinità. Il risultato è stato assolutamente sconcertante: il capitello risulta al suo posto originario, ma della colonna che lo sosteneva è rimasta integra soltanto una piccola parte, mentre il resto è stato tagliato e distrutto in occasione di adattamenti e modifiche subiti dall’edificio moderno. Intatti, se ne conservano i rocchi inferiori sotto il pavimento attuale, così come nell’altra precedentemente descritta, e intatto appare anche, nel tratto rimesso in luce: il duplice filare dei blocchi dello stylobates, che anche qui risulta impostato, con, soli due gradini, direttamente sul banco di roccia.

Diversa è la situazione nell’ambito dell’edificio adiacente, già sede del Convento di S. Michele e poi di una caserma dei Carabinieri. Qui purtroppo la costruzione di ampi sotterranei e di enormi cisterne, per l’uso evidentemente del Convento. ha distrutto ogni traccia del tempio ed ha tagliato anche il banco di roccia sottostante, così come era avvenuto nell’area dell’ex Convento dei Celestini. Soltanto nell’angolo S.W. del chiostro sono ricomparsi, perfettamente allineati e assai ben conservati, i soliti due filari di blocchi dello stylobates.

Il tempio continuava, evidentemente, a estendersi verso S.W. Ma fin dove?

Esaminando con attenzione la pianta della zona, avevamo notato che l’edificio dell’ex ospedale dei Pellegrini presenta una singolare peculiarità: pur risultando esso regolarmente allineato lungo l’asse dell’attuale via Duomo, tuttavia nella parte meridionale appare impostato secondo un allineamento decisamente diverso, che ora, alla luce dei risultati dello scavo, si rivela come l’allineamento del tempio sui cui resti l’edificio fu impostato.

Sulla base di tale constatazione abbiamo rivolto la nostra attenzione al settore S W dell’edificio comprendente la chiesa di San Michele e il suo ex Convento: qui appariva singolare il fatto che il muro esterno della chiesa, prospiciente il vico S. Michele, nello ultimo suo tratto improvvisamente deviasse dal suo primitivo allineamento e si disponesse in posizione esattamente ortogonale all’asse dell’antico tempio. E un ulteriore riferimento a quest’asse si riscontrava in un muro dell’ambiente immediatamente retrostante la chiesa in questione. È stato perciò effettuato un sopraluogo in detto ambiente, dopo averlo sgomberato da una enorme massa di materiale di scarico ivi accumulata da tempo immemorabile, e si è constatato che al di sotto di esso era stato scavato un sotterraneo accessibile attraverso una botola aperta nei pavimento e corrispondente all’ambiente soprastante. Lo scavo per l’apertura di detto sotterraneo, condotto fino alla profondità di m. 5 ca., aveva oltrepassato il piano del basamento del tempio e aveva tagliato anche il banco roccioso sottostante; tuttavia sul lato settentrionale la parte esterna dei blocchi costituenti il duplice filare dello stylobates era rimasta in situ ed era chiaramente visibile nel taglio della parete, così come in una «sezione» grafica, ed appariva perfettamente allineata e adagiata sul piano di roccia appositamente livellato per consentirne la posa in opera. A un certo punto, tuttavia, quasi al termine della parete, verso il lato occidentale, l’allineamento regolare dei due filari di blocchi sovrapposti aveva termine, ed aveva termine oltresì il livellamento del piano di roccia, con la conseguente presenza di un dente che costituiva il fermo per il filare inferiore dello stylobates (tav. XIX). Appariva chiaro che proprio in quel punto terminava il lato lungo del basamento e di lì doveva partire in direzione Sud il lato corto, del quale tuttavia ogni traccia era stata distrutta dallo scavo del sotterraneo.

L’aver individuato e seguito, in alcuni tratti superstiti, il lato settentrionale dello stylobates del nostro tempio non è valso, purtroppo, a stabilire la lunghezza dell’edificio, in quanto sinora non sono state ritrovate tracce della parte anteriore. È possibile tuttavia, dagli elementi acquisiti, dedurre alcuni dati e avanzare alcune ipotesi.

Il lato settentrionale dello stylobates, nei quasi 50 metri individuati, doveva sorreggere 13 colonne, come si deduce dalla larghezza dell’interasse (m. 3,72) che si ricava dalle colonne superstiti. Tuttavia la colonna di cui abbiamo recentemente ritrovato i resti non può essere considerata la prima, cioè quella angolare N E, poiché il saggio effettuato non ha rivelato alcuna traccia del lato corto orientale dello stylobates, ed ha invece documentato l’esistenza di un battuto pavimentale evidentemente relativo all’ambulacro della peristasi. Almeno un’altra colonna, quindi, deve essere supposta ad E, e forse anche due o più, se si tien conto della notizia tramandata dal Carducci (v. sopra, pag. 293) che durante la costruzione del Monastero dei Celestini furono distrutti «dieci spezzoni di colonne d’ordine dorico», che dovevano evidentemente riferirsi, almeno in parte, alla fronte del tempio volta, come di norma, verso Oriente.

Di queste colonne, e dello stesso stylobates relativo al lato corto orientale del tempio, non c’è sinora alcuna traccia, sicché non siamo in grado di precisarne le dimensioni. Tuttavia, se si tien presente la posizione, l’allineamento e la reciproca distanza di quei muri dall’andamento anomalo di cui ho fatto cenno più sopra, e si considera che quelli controllati nei saggi di scavo effettuati risultano appoggiati precisamente sui resti delle colonne e sui blocchi dello stylobates, non ci si può sottrarre alla tentazione di ritenere che anche gli altri siano, almeno in qualche tratto, sovrapposti a strutture dell’antico edificio e che il lato meridionale dell’odierno palazzo Mastronuzzi insista sopra un altro tratto dello stylobates del tempio, sicché qualche elemento di quest’ultimo possa ritrovarsi ancora inglobato nelle moderne strutture, che in questo settore appaiono particolarmente larghe e massicce. L’ipotesi appare non inverosimile se si osserva che in tal caso l’angolo S W del tempio verrebbe a trovarsi proprio in corrispondenza dell’angolo N W del palazzo del Municipio, là dove le notizie in nostro possesso (v. sopra, pag. 294) documentano la presenza di resti antichi, poi distrutti, e di un capitello, probabilmente rimasto intatto, rinvenuti durante i lavori di costruzione o di consolidamento del Municipio stesso.

Naturalmente solo lo scavo completo potrà permettere di controllare queste ipotesi e le altre che sono state fatte o che si potrebbero fare sulla base degli scarsi elementi in nostro possesso.

Tuttavia, dato che siamo in tema di ipotesi, vorrei, a chiusura di questa rassegna prospettarne ancora una, in merito alla divinità cui il nostro tempio doveva essere dedicato L’attribuzione a Poseidon, divenuta ormai tradizionale, è di epoca relativamente recente: essa risale al Viola, che la propose esclusivamente in base alla considerazione che «il tempio monumentale più antico, poiché si riferisce ad epoca relativamente poco distante dalla fondazione della colonia dorica, dovette esser consacrato al dio archegete, patrono della città». Altri, come il Ciaceri, pensò invece ad Apollo Delfinio.

Ma la tradizione più antica, come ho avuto occasione di rilevare all’inizio (v. pag. 293) lo attribuiva invece a Diana o anche a Venere. Ora, non bisogna dimenticare che la stessa tradizione attesta che proprio nell’area del tempio i primitivi cristiani eressero un altare, e poi una chiesa, dedicati alla Vergine Madre dei Martiri, e che più tardi, sempre nella stessa area, fu costruita un’altra chiesa dedicata all’Annunziata. Se dobbiamo credere al principio della continuità del culto, l’attribuzione dell’antico tempio a una divinità femminile acquista, quindi, una maggiore verisimiglianza. Ma v’è di più. Ho riferito più sopra (pag. 302) che durante i recenti saggi di scavo sono stati raccolti alcuni frammenti di statuine fittili; questi frammenti, 3 sinora, sono tutti pertinenti a una figura femminile con polos seduta in trono. Tali considerazioni e inoltre la presenza di zanne di porco fra i resti di ossa e di terra bruciata al di sopra dello strato di battuto presso la prima colonna (pag. 301) e i numerosi frammenti di lucerne rinvenuti durante lo scavo rendono suggestiva l’ipotesi che il tempio possa riferirsi a una divinità femminile ctonia. E poiché siamo a Taranto, è troppo ardito pensare a Persefone? L’ampia e diffusa presenza di culti ctonii costituisce senza dubbio una tipica caratteristica di questa città e fra detti culti quello di Persefone vi aveva — è ben noto — un particolarissimo rilievo. È vero che i depositi, talvolta ricchissimi, di terrecotte votive relative ai culti ctonii provengono tutti dall’area della necropoli tarentina, ma è altrettanto vero che nessuna traccia di costruzioni templari è mai stata rinvenuta presso detti depositi, per cui è rimasta sempre senza risposta la questione della pertinenza della famosa statua di dea seduta di Berlino, sulla cui provenienza da Taranto e sulla cui identificazione con Persefone pare si sia oggi raggiunto un ampio consenso. Del resto, la presenza, in Taranto, di più di una sede destinata al culto di Persefone non mi stupirebbe affatto, data la singolare importanza di detto culto nella città, da cui derivò addirittura il nome Tarentum alla località dell’isola Tiberina dove i Romani celebravano i riti in onore della coppia Dis Pater -Proserpina. Quella che ho qui proposto è evidentemente una ipotesi di lavoro, che le indagini future dovranno attentamente verificare, Ma penso che non sia stato inopportuno proporla nella sede dei nostri Convegni, il cui fine precipuo è proprio quello di consentire e promuovere il più aperto, franco e stimolante confronto di opinioni e di idee.

ATTILIO STAZIO